Piccolo Teatro di Milano
Arlecchino servitore di due padroni

Per Giorgio Strehler, regista di questa commedia goldoniana portata in scena al PiccoloTeatro di Milano, Arlecchino è capace di “trascinare lo spettatore nell'empireo del grande teatro comico, inno gioioso di liberazione”.

E così in effetti è: basta assistere ad una rappresentazione per rendersene conto e per venire trascinati in un fervido turbinio di luci, in un piacevole vortice di melodiosi suoni e di colori di costumi d'altri tempi, quelli della Venezia settecentesca.
Il palcoscenico è un continuo andirivieni di personaggi particolari e ben tratteggiati, che si fanno portavoce delle più disparate condizioni sociali (servo, signorotto, medico, giurista, commerciante), dando così una fotografia panoramica di quella che doveva essere la società settecentesca, il “mondo” del quale Goldoni fa la sua fonte d'ispirazione primaria e che poi ritroviamo, in tutte le sue poliedriche sfaccettature, in tutti i testi che lo scrittore giramondo ci ha lasciato in eredità.

Così, ne Arlecchino servitore di due padroni, ci imbattiamo in un Pantalone tutto intento nell'accasare sua figlia Clarice, già promessa in sposa a Federigo, signorotto di Torino, e, dopo la notizia della morte di quest'ultimo, concessa in moglie a Silvio, figlio di un dottore veneziano. Colpo di scena: mentre i due padri (di Clarice e di Silvio) conducono in tranquillità e serenità le trattative matrimoniali, ecco comparire sulla scena Federigo. In realtà, non siamo di fronte al vero Federigo, costui infatti è morto duellando con Florindo, innamorato di sua sorella Beatrice, ma non apprezzato e sognato come futuro cognato da Federigo, che lo affrontò a duello. È dunque Beatrice, sotto le vesti e sembianze maschili del defunto fratello, a prorompere ora sulla scena veneziana, scompigliandone la quiete per saldare i crediti che il vero Federigo vantava nei confronti di Pantalone. Vi è tuttavia un secondo colpo di scena: alla locanda di Pulcinella, oltre a Beatrice e alla di lei insaputa, vi alloggia anche Florindo, di lei innamorato, che con la sua spada fece perire Federigo e che ora si trova a Venezia per sfuggire alla giustizia torinese. In questo contesto e in questa trama già arzigogolata, s'innesta la fantomatica figura di Arlecchino (interpretato dall'abile maestro Ferruccio Soleri), che contribuisce anch'esso a scarmigliare ancora di più la già non facile trama, mettendosi a servizio non di uno, ma bensì di due padroni, Beatrice da una parte e Florindo dall'altra e dando luogo così ad una serie di equivoci e di incidenti dai quali trova sempre la scappatoia, magari inventandosi pure la figura di un servo fittizio, il capro espiatorio Pasquale.

Chiaramente esplicativa di questa duplice situazione di servo è la scena del pranzo, nella quale Arlecchino fa le corse per servire contemporaneamente i due padroni e ogni tanto scambia pure i piatti, fra le risa del pubblico.

Ad ogni modo, tutti i nodi alla fine vengono al pettine e così è pure in questa commedia: la matassa inizia a sbrogliarsi nel momento in cui Beatrice rivela la sua vera identità e ritrova il suo adorato Florindo per non lasciarlo mai più, Silvio e Clarice si sposano e così pure la serva Smeraldina con Arlecchino, il quale in questa cornice svela il gioco che finora ha messo in piedi, mirabilmente direi, dal momento che né Beatrice né Florindo si erano resi conto di avere un servo in comune.

Ed è proprio la figura di Arlecchino (o Truffaldino, qualsivoglia) al centro di questa commedia sulla quale occorre riflettere maggiormente per capire la rivoluzione goldoniana. Arlecchino servitore di due padroni, a livello cronologico, si pone come una delle prime commedie dell'artista veneziano ed è quindi emblematica di una prima fase dell'opera goldoniana, nella quale l'autore cerca di trarre il meglio dalla tradizione della Commedia dell'arte, di valorizzare questa tradizione dei tipi fissi, stereotipati e di unirli in una sintesi, in uno scambio reciproco alla mirabile multiforme varietà dei caratteri e della condizione umana.
Arlecchino è, infatti, una maschera mutuata dal repertorio offerto dalla Commedia dell'arte, un genere che dal 1500 al 1700 ha dominato la scena teatrale italiana senza lasciare spazi d'inserimento ad altre tipologie di teatro: la Commedia dell'arte è popolata da tipi fissi, che rivestono maschere statiche, gli attori non hanno un copione da seguire, ma soltanto un canovaccio che pone le linee guida della trama, il resto è lasciato all'invenzione e all'improvvisazione degli attori, i quali si abituano e abituano il pubblico a veder riproposti sempre gli stessi gesti e gli stessi personaggi ( un Arlecchino servo scaltro e furbastro, la cui prima occupazione è il cibo; un Pantalone teso alla libidine e all'avarizia; un Brighella, servo furbo e imbroglione; e ancora Colombina, il Dottore ecc ecc).

Pur essendo un lavoro ancora in nuce, Goldoni aborrisce questo modo di fare teatro e s'impegna per riformare il settore: la pietra miliare della riforma goldoniana costituisce nella comparsa di un copione al quale gli attori, protagonisti tratti dalla varietà del “mondo” e non più tipi fissi, devono attenersi in modo abbastanza scrupoloso.

E tutti questi elementi sono visibili, per quanto opera che rispecchia ancora una fase di transizione , ne Arlecchino servitore di due padroni, tant'è che il regista Strehler ha sapientemente collocato un palco nel palco e ha fatto in modo che Pantalone, quando non impegnato a recitare, scenda dal palco nel palco e segua gli altri attori, comportandosi come una specie di capo comico, attento a che venga rispettato il copione e la scena risulti gradevole al pubblico. Tutta quest'attenzione per il nuovo elemento del copione viene sottolineata dalla costante presenza ai lati della scena di un individuo, che segue il dialogo leggendolo sul copione e talora suggerendo frasi che gli attori fingono di non ricordare. Un abile stratagemma per ricordare al pubblico l'importanza della rivoluzione goldoniana, la quale, tuttavia, fece in un primo tempo molta fatica ad affermarsi, trovando i principali ostacoli negli attori e nel pubblico, ormai troppo abituati al genere della Commedia dell'Arte per staccarsene in modo repentino. Per fortuna si trovarono compagnie che s'impegnarono e vollero seguire lo spirito goldoniano, non per fare un teatro migliore, ma semplicemente per fare un teatro diverso e, sotto certi profili, innovativo. E così, anche noi, oggi, possiamo fruire dell'ampio repertorio goldoniano e possiamo lasciarci trasportare in quell' “inno gioioso di liberazione” che la compagnia di Soleri ben ha trasmesso, aggiungendo talvolta la loro comicità a quella propria del testo. Ad esempio: un Brighella che balbetta “è andato a ca, a ca, a ca... a cavallo”, oppure “digli di venire ire ire ire ire... scusate eh, è per simulare la lontananza!” oppure “figlia, o figlia mia, che mi combini!” e gli altri attori “ ma fallo più moderno!”, e la volta dopo “figlia, figlia mia ... che è, lo volete più moderno?”.
In sintesi, uno spettacolo veramente imperdibile, che mi ha trasportata in un mondo colorato come il vestito di Arlecchino, spassoso e speziato come il dialetto veneziano, riconfermando ancora un volta la grande forza del teatro, contemporaneamente luogo di rappresentazione della società e luogo di distacco dalla stessa, di temporanea, ridente evasione.

Autore Veronica Pozzi | 30.3.2010 Share/Bookmark